Quanto rendono i coworking in Italia? La redditività nel 2018

Gli spazi di coworking in Italia nel 2018 sono cresciuti un po’ ovunque. Come se la passano? Sono redditizi? Quali sono i fattori che permettono di superare il break even point? In quanto tempo diventano attivi? Che tipo di investimento serve? Quanti coworkers sono necessari? Proviamo a rispondere a queste ed altre domande su quanto rendono gli spazi di coworking sia in termini quantitativi che qualitativi.

Prima di capire quanto rendono i coworking in Italia nel 2018 dobbiamo guardare a come è cresciuto il fenomeno negli ultimi anni.

Arrivati a oltre 500 coworking in Italia

A circa un decennio dallo sbarco del coworking in Italia, il numero di spazi, operatori, addetti e fruitori è cresciuto rapidamente fino superare quota 550 esperienze sul territorio nazionale: 1 coworking ogni circa 108 mila abitanti.

Il fenomeno è ormai significativamente distribuito in ogni regione e tra grandi e piccoli centri urbani. Al Nord hanno sede oltre 300 coworking, il 55% del totale, ovvero un coworking ogni 89 mila abitanti. Ma sono cresciuti anche gli spazi al Sud nelle Isole, che risultano al gennaio 2018 126, pari al 28% e a 1 coworking ogni 163 mila abitanti.

Il coworking non è più solo un fenomeno delle grandi città. Solo il 32% ha sede in un centro al di sopra dei 200.000 abitanti e il 37% una città metropolitana. Addirittura 1 coworking su 4 è in centri non in area metropolitana con meno di 50 mila abitanti.

Un fenomeno in forte espansione


Coworking  in Italia nel 2018 N. %
in città dai 200.000 ab. in su 177 32
in area metropolitana 204 37
in centri < 50.000 ab. 172 31
in centri < 50.000 ab. non in area metropolitana 140 25
Totale 551 100
fonte: Italian Coworking Survey 2018

 


Redditività

Quanto sono redditizi i coworking in Italia?

E’ una domanda difficile a cui rispondere. Va considerato che esistono molti tipi di coworking in italia, diversi orientamenti al business, motivazioni, vocazioni e obiettivi. Esistono poi condizioni peculiari delle realtà territoriali in cui sono calati. L’interpretazione che offre il mercato italiano è dunque variegata (e talvolta anche divergente dal modello o dai valori originali). Pertanto le ragioni per cui un coworking ce la fa, ed un altro no, possono passare per un numero elevato di ragioni o variabili. Il bilancio di un coworking può essere in attivo perché ospita un bar o un negozio al suo interno, perché realizza molte attività di formazione, perché ha un sostegno pubblico diretto o indiretto, ecc.. Difficilmente è solo una questione di quanti coworkers (clienti) occupano le sue postazioni.

A prima vista, le cose per il coworking italiano, più che per il resto del mondo, non vanno benissimo. Ma a ben guardare proprio questa complessità è un fattore di rischio e di grande opportunità.

1 su 3 è in attivo

Al 2017 solo il 30% dei coworking ha un bilancio in attivo e potenzialmente genera profitti. La quota complessiva scende drammaticamente per i coworking settoriali (principalmente destinati a specifici gruppi di professionisti) e per quelli a vocazione sociale.

Se il dato sembra scoraggiare, va considerato come il modello è stato recepito in Italia.

Infatti esiste, da una parte, una rilevante un’area no-profit – pubblica e terzo settore (18%), dall’altra una grande area profit, a cui partecipano la maggior parte dei coworking italiani (66%), formata da aziende che svolgono altre attività in cui il coworking è parte accessoria o non prevalente.

Di fatto i coworking che si occupano principalmente di coworking sono poco più del 15%.

Più orientati alla ricerca del valore che del profitto

Una spiegazione potrebbe essere che, sebbene circa l’80% di coworking sia fondato da società (srl, spa, ecc.), solo 1/3 nasce con l’aspirazione di “fare business”. La maggioranza avvia il progetto con motivazioni quali: la ricerca di nuovi clienti o la visibilità per un’altra attività principale (44%) o semplicemente ridurre le spese della propria struttura (20%).

A bocce ferme, i fattori (statisticamente) significativi che incidono sulla performance dei coworking in Italia sono gli anni di attivitàe i costi di investimento iniziale.

Circa 3 anni per superare il break even point

I coworking in Italia operano in un mercato ancora nuovo in cui è ancora necessario stimolare la domanda di spazi in condivisione. Dopo 3 anni la maggioranza dei coworking è in attivo, ma già dopo il secondo anno di attività la quota dei coworking in perdita scende significativamente.

Il periodo di startup varia comunque a secondo del target clienti del coworking. Gli spazi aperti a specifici gruppi (di professionisti o gruppi sociali) devono resistere più a lungo nella zombie-land (poche perdite – nessun guadagno). I coworking settoriali, in particolare, senza l’aiuto di finanziamenti pubblici, affrontano una sfida più lunga che però, superati i 3 anni, potrebbe ripagare maggiormente in termini di stabilità della clientela.

Investire di più nel coworking ripaga

L’investimento medio dei coworking italiani si aggira intorno ai 50 mila euro. Poco più del 13% investe dalle 100 mila euro in su. Questo contribuisce a spiegare parte della redditività complessiva dei coworking italiani. Chi investe di più sembra infatti avere più chances di redditività e di farlo in un tempo più breve (circa 2 anni). Probabilmente, in questa fase di affermazione del coworking, gli spazi più grandi o meglio curati offrono ai potenziali clienti più incentivi a saltare l’ostacolo e imbracciare la nuova modalità. Di fatto, anche l’indice di equipaggiamento degli spazi, in particolare le dotazioni di sicurezza e tecnologiche, confermano che investire di più paga.

Tanto spazio è meglio che molti membri

Anche se piccoli, sotto i 10 coworkers in media all’anno (membri) non si va da nessuna parte – e probabilmente non ci si potrebbe definire coworking. La soglia di membri per il raggiungimento della redditività, tuttavia, resta sorprendentemente bassa (meno di 20), soprattutto se comparata ad altre esperienze internazionali. In generale, a causa delle caratteristiche vocazionali dei coworking italiani, non sembra esserci una significativa correlazione tra numero di contratti medi annui e profitti, ma piuttosto tra questi ultimi e la capacità dei singoli spazi di coworking.

Tra gli spazi di grandi dimensioni, infatti, la quota dei coworking in perdita scende totalmente, aumenta sia il numero dei più redditizi uffici privati (che passano in media da 2 a oltre 10), sia le opportunità per l’offerta di sale e altre attività/servizi.

Inoltre piccolissimo (<100mq) è meglio che piccolo (100-300mq) probabilmente per i costi di gestione e per lo scarso apporto in opportunità che uno spazio poco più grande apporta all’intero business.

Meglio nelle grandi città e al Nord, eppure…

I coworking nelle città oltre i 100 mila abitanti e, in particolare, quelli in grossi agglomerati oltre i 500 mila abitanti hanno per ovvi motivi una migliore performance. A dispetto di una più accesa competizione nei loro territori, se la passano meglio. Allo stesso modo i coworking al Nord hanno una performance complessiva migliore.

Tutto come da previsioni? Sì, ma con sorpresa non si registra una relazione significativa* tra dimensione e redditività. In città più piccole e addirittura piccolissime i coworking non perdono più che nei grossi centri. I più riescono a sopravvivere e più di 1/5 ha successo. Investire significativamente e resistere nella fase di avvio (leggi stimolare bene la domanda) ancora una volta sembrano essere fattori che fanno la differenza, anche considerando la natura profit/no-profit o le motivazioni.

I network aiutano…

I coworking che fanno parte di un franchising o di una rete associativa hanno più frequentemente un bilancio in attivo e impiegano meno a raggiungere il Break Even. L’impatto dell’associarsi a grandi piattaforme (Impact Hub, TaG, Copernico, ecc..) sembra essere un vantaggio competitivo rilevante. In misura minore, anche le reti associative (es. Cowo, ecc.) mostrano questo effetto, anche se raccordano più di altri operatori che fanno coworking come attività non prevalente (oltre 80%) a minor rischio d’impresa.

…non pagare il fitto (o pagarlo di meno) aiuta di più

Pagare o meno l’affitto dello spazio di coworking è un fattore di successo rilevante*. Mediamente l’affitto pesa circa il 41% del totale delle uscite tra chi fitta uno spazio da un privato e il 27% tra tutti. Pertanto in termini di redditività, se lo spazio è di proprietà o in concessione o in fitto da un privato o da un ente pubblico rende la vita molto più facile. Solo 1/5 dei coworking che pagano l’affitto ad un privato è in attivo.

Se si è in questo caso, fa differenza trovarsi in una grande città, avare un numero di membri alto, avere uno spazio sopra i 600 mq.

 

Cercare di ridurre le spese con il coworking paga poco…Meglio cercare un co-finanziatore privato

Posto che l’obiettivo è evidentemente diverso dal fare profitto, iniziare cercando di ridurre le spese con il coworking si dimostra in Italia una strategia non molto efficace. Infatti se da una parte solo 1/10 dei coworking nati con questa motivazione è redditizio, dall’altra circa 1/3 sono in perdita (quota simile a quella complessiva).

Se si vuole cercare di andare oltre il pareggio del bilancio, cercare un co-finanziatore del coworking potrebbe essere una migliore strategia di sviluppo. Infatti gli spazi co-finanziati, soprattutto se da privati, presentano una migliore performance di redditività e minori tempi per il break even.

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