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Ancora non pienamente fuori dalla lunga emergenza pandemica, nella quale però il saldo degli spazi di lavoro condivisi in Italia ha continuato a crescere, presentiamo oggi i primi risultati della nuova Italian Coworking Survey 2021 (ICSurvey 2021), l’indagine nazionale sul Coworking in Italia comprendente tutto l’universo degli spazi di lavoro flessibili, dai business center, ai coliving, ai maker places, agli uffici condivisi, agli spazi di lavoro ibridi. 

 

Alla ricerca hanno partecipato oltre 136 organizzazioni che gestiscono spazi di lavoro condivisi in tutto il Paese, tra ottobre e dicembre 2021. Tra gennaio e marzo 2022 sono stati raccolti ed elaborati i dati e le visualizzazioni a cura di Italian Coworking, DAStU-Politecnico di Milano e Cost Action CA18214. 

Come ha reagito l’industria del coworking e degli uffici flessibili così duramente colpita negli ultimi due anni? Quali cambiamenti si sono verificati? Quali prospettive si stanno affermando? Quali misure sono state adottate? L’obiettivo è fornire statistiche sul coworking affidabili, nonché raccogliere riflessioni che possano aiutare il lavoro di operatori, investitori, decisori pubblici, analisti e perché no di appassionati.

In questo primo rapporto, proviamo a dare una possibile lettura del set di dati relativi al tema della redditività degli spazi di coworking e uffici flessibili. Ognuno può contribuire all’analisi e all’interpretazione dei dati interrogando il dataset attraverso le nostre visualizzazioni (vizzes) utilizzando i filtri.

Sin dal 2017 abbiamo affrontato il tema della redditività scoprendo, non senza sorpresa, che solo 1 struttura su 3 dichiarava di avere, o di prevedere per l’anno in corso, un bilancio societario in attivo. Dato confermato nella successiva ICSurvey 2019 in cui sempre solo 1 struttura su 3 risultava redditizia.

Per spiegare questa peculiarità italiana, abbiamo più volte sottolineato, e i dati 2021 lo confermano, che da noi si sono sviluppati diversi tipi di spazi di coworking. Fra questi esiste:

  • un’area no-profit e/o del “servizio pubblico” che rappresenta il 20% dell’offerta nazionale, ma registra un numero più limitato di postazioni complessive, in quanto è per lo più costituita da strutture di piccole dimensioni. 
  • Una vasta area di attività non prevalente (intorno al 45% dell’offerta totale), che ha obiettivi di mercato limitati, vale a dire che rappresenta un’attività accessoria in cui il coworking o l’ufficio condiviso sono mantenuti per ridurre le spese o per accrescere l’offerta di un’altra attività prevalente. Quest’area è caratterizzata, in media, da strutture di piccole o medie dimensioni al di sotto dei 300mq.
  • Infine c’è un’area for-profit la cui attività economica è prevalente (circa il 36%) ed è caratterizzata da strutture di grandi dimensioni dai 1000mq in su, anche se non è trascurabile il numero di spazi medio-piccoli.

Va dunque considerato che sulla redditività influiscono diverse motivazioni e vocazioni, obiettivi e orientamenti al business, senza considerare che esistono poi condizioni territoriali specifiche ed altri fattori da tenere in considerazione.

Quanto rendono i coworking in Italia? Ancora 1 su 3 è redditizio.

A più di 2 anni dall’inizio dell’emergenza sanitaria, si conferma nuovamente, per 2021, il dato emerso dalla ICSurvey 2018 e 2019: poco più di un terzo dei coworking (34%) è in attivo; il 40% è in pareggio, il 26% è in perdita.

Come valutare questo dato al termine della pandemia?

Visto l’andamento economico di questi ultimi 2 anni, che ha generato lo stop di tante attività dell’industria del coworking e degli uffici flessibili (pensiamo non solo ai lockdown, ma anche alle perduranti limitazioni sugli eventi, sulla formazione in presenza, ecc.), il dato è, secondo noi, non solo incoraggiante, anzi risulta notevole. Anche se solo leggermente, rispetto agli anni precedenti, la quota complessiva degli operatori che presenta un bilancio in attivo è addirittura in crescita. 

Tale quota diventa significativamente più ampia tra coloro per cui il coworking o l’ufficio flessibile rappresentano l’attività prevalente. 

Più redditività per chi svolge l’attività in modo prevalente

Il business dunque ha superato questa fase critica dell’emergenza pandemica e sembra andare bene specialmente per chi se ne occupa in modo prevalente. Circa il 50% di chi si occupa di coworking e uffici flessibili come principale attività ha un bilancio positivo, residuale la quota di coloro in perdita (meno del 20%). 

Al contrario, chi cerca di ridurre le spese con l’ufficio condiviso/coworking ha più probabilità di subire delle perdite (40%) e solo raramente (12%) riesce a guadagnare.

Far parte di un network aiuta, ma non è determinante

Fare parte di un network, ovvero far parte di una società che gestisce più spazi o in misura minore far parte di un franchising, aiuta a raggiungere più velocemente il successo. I coworking che rientrano in questa categoria sono in media più redditizi di quelli che non fanno parte formalmente di alcun network; il dato però non è statisticamente significativo. Anche le reti associative che riuniscono a vario titolo più strutture sembrano avere un effetto sulla redditività, sebbene in misura inferiore rispetto ai franchising o alle società che gestiscono più strutture. 

Non si può non notare tuttavia che in Italia la presenza di piattaforme di coworking nazionali e internazionali si sia, negli ultimi 3 anni, sostanzialmente ridotta a 4-5 operatori prevalentemente concentrati nel milanese. Inoltre, ad oggi quasi nessuno di questi, tranne rarissime eccezioni, è significativamente presente al di sotto di Roma. Questo trend pone l’Italia alla periferia dell’espansione del coworking e del flexible office globale e può essere essere ricondotto al basso livello di attrazione degli investimenti del Paese, e al ritardo sull’adozione di forme di lavoro più flessibili in Italia.

Nelle prossime rilevazioni concentreremo l’attenzione su questo fenomeno e sulle sue determinanti che rivestono un ruolo importante della diffusione del coworking in tanti paesi.

Aprire in un contesto metropolitano è più redditizio, ma in periferia non si sbaglia

Dopo questa lunga fase di crisi non ci meraviglierebbe se la discriminante territoriale riprendesse significativamente importanza.

Nel 2018 avevamo rilevato che i coworking nelle città oltre i 100 mila abitanti e, in particolare, in grossi agglomerati oltre i 500 mila abitanti, avevano, per ovvi motivi, una migliore performance. Allo stesso tempo avevamo a più riprese evidenziato come le prospettive per chi apriva un coworking in un piccolo comune o in un’area interna o al Sud d’Italia non erano penalizzanti come ci si poteva immaginare. Anzi, proprio piccoli comuni e Mezzogiorno d’Italia mostravano una sorprendente vitalità, confermata nel 2021. 

Pertanto, anche i dati di quest’anno ci dicono che la dimensione del comune (piccolo, medio grande o metropolitano) e la macro area regionale (Nord, Centro, Sud, Isole) non sono fattori determinanti per la redditività degli spazi di coworking e uffici flessibili. Lo saranno sicuramente per quanto riguarda la sostenibilità o l’entità dei bilanci; per intenderci, mentre le entrate e le uscite potrebbero avere pesi molto diversi in un contesto metropolitano o rurale, la collocazione geografica non influenza la possibilità di avere bilanci positivi anche in periferia. 

Il 31% dei coworking con bilancio in attivo è localizzato in aree urbane dai 500.000 abitanti in su e oltre il 51% percento in agglomerati dai 100.000 abitanti in su. Ma se 1 spazio di successo su 2 si trova in un contesto metropolitano almeno 1 su 3 si trova in un piccolo comune (al di sotto dei 50.000 abitanti) dove i coworking in attivo sono il 33%. 

Break even point passa a 2 anni ma è meno significativo

In media i coworking e gli uffici flessibili in Italia dopo 2 anni di attività hanno superato la fase di startup e sono in maggioranza in attivo, un anno in meno da quanto riscontrato nel 2017. La crescita di interesse verso soluzioni di flexible real estate da parte di nuovi utenti come aziende e smartworkers, potrebbe infatti rendere meno significativa la relazione tra anni di attività dello spazio e redditività, come si riscontrava negli anni passati. In effetti, prima della pandemia, gli operatori che aprivano un nuovo spazio di coworking dovevano stimolare la domanda e impiegavano in media 3 anni per consolidare una clientela.  Oggi che la domanda di spazi flessibili è in forte aumento il problema è piuttosto intercettarla e adeguarsi velocemente ai bisogni di questi nuovi potenziali clienti che sono molto volatili. Sembra ragionevole pensare che fra qualche anno, superata questa fase molto confusa, l’esperienza e gli anni di attività potrebbero tornare a fare la differenza in termini di creazione di una clientela stabile e dunque tornare a influenzare la redditività.

La dimensione della struttura conta sempre di più

La sensazione è che, tra coloro che operano nel profit, avere una struttura da 1000mq in su conti più che nelle precedenti analisi. Gli spazi di coworking in attivo hanno infatti una maggiore dimensione in mq e ospitano più di 50 coworkers in media. Viceversa quelli in perdita hanno meno di 35 coworkers in media.

Sempre ai fini della redditività, nel 2021 sembra ancora più rilevante l’avere a disposizione metrature importanti. Il nuovo interesse delle aziende verso coworking e uffici flessibili si trasforma in una opportunità. A conferma di questa tendenza, come infatti vedremo a proposito della composizione degli spazi, sono sempre più gli uffici o le stanze private e meno le postazioni a generare più profitti. La pandemia Covid-19 ha fatto aumentare le richieste di spazi privati che, quindi, sono propri delle strutture più ampie e hanno attratto i lavoratori a distanza.

Insomma, la dimensione e la disponibilità di ambienti dedicati ad uffici privati e sale, fanno la differenza, a patto di ritrovarsi in un contesto territoriale che permette di ammortizzare agevolmente gli oneri (vedi dopo sull’aumento dei costi di gestione).

La proprietà dell’immobile: un fattore discriminante

Pertanto, in un contesto dove la densità di utenti per mq è più bassa del passato e la dimensione dell’immobile diventa importante, la proprietà o la concessione gratuita dello spazio è un fattore che, per ovvie ragioni, fa la differenza nella redditività di uno spazio di coworking. Pagare o meno l’affitto dello spazio di coworking è come si rileva dai dati un fattore di successo significativo. 

Tra coloro che gestiscono uno spazio in fitto da un privato, i costi di locazione pesano circa il 40% del totale delle uscite (in linea con gli altri anni), e il 24% tra tutti (era 27% nel 2018). Pertanto in termini di redditività, se lo spazio è di proprietà o in concessione da un privato o da un ente pubblico rende la vita molto più facile. Di fatto nella nostra rilevazione, poco più di 1/4 dei coworking che pagano l’affitto ad un privato è in attivo.

In aumento i costi di gestione: il peso delle utenze e delle restrizioni Covid-19 

Nella viz Redditità abbiamo ricostruito la struttura dei costi e delle entrate degli spazi partecipanti. Le considerazioni principali circa il flusso di spesa riguardano il peso delle utenze e i nuovi costi da sostenere tra cui i dispositivi e i processi per la pandemia Covid-19. 

Se si considera che la survey è stata somministrata prima della recente guerra in Ucraina con il connesso aumento generalizzato dei costi dell’energia, le utenze a dicembre 2021 erano già diventate la prima voce di spesa sostenuta dagli spazi di coworking (25,4% della spesa complessive degli spazi e uffici italiani). Prima di conclamarsi come nuova tegola per gli operatori italiani, luce, gas e altre utenze hanno fatto lievitare i costi complessivi di gestione. 

Meno significativo, ma comunque un nuovo importante costo che si aggiunge, è quello legato alla gestione del Covid-19, che con il 7% del costo totale era una voce non esistente nelle altre rilevazioni.

Come al solito se da un lato l’incremento consistente dei costi di gestione degli immobili a destinazione ufficio pone una nuova minaccia alla difficile redditività dei coworking e uffici flessibili in Italia, dall’altro inevitabilmente crea anche nuove opportunità grazie alla contestuale crescita di potenziali clienti che decidono di lasciare la gestione dei propri uffici a qualcun altro.

Conclusioni

A due anni dalla pandemia il coworking, uffici flessibili, business center e altri spazi di lavoro condiviso hanno retto l’urto e confermano, se non migliorano, gli indicatori di redditività come rilevati nelle precedenti ICSurvey.

Sono confermati alcuni fattori influenzano la performance degli spazi di coworking come rilevato già nelle scorse edizioni: svolgere l’attività in modo prevalente, la dimensione e la proprietà dell’immobile.

Non sono stati confermate, invece, alcune relazioni come la localizzazione dell’attività, ovvero la dimensione del comune o l’area macro-geografica, sebbene abbiamo evidenziato che influiscano indubbiamente sulla sostenibilità dell’investimento e sul peso del business.

Allo stesso modo, influisce, ma non in modo meno determinante, l’appartenenza ad un network che gestisce o associa più spazi. Far parte di un gruppo o aderire ad un franchising aiuta ad avere una migliore performance in media, ma non in modo significativo rispetto ai cosiddetti “indipendenti”.

Sono in aumento i costi di gestione legati alle utenze e ai protocolli Covid-19. Abbiamo sottolineato che questi oneri da una parte possono mettere ancora in sofferenza gli operatori, dall’altra creano nuove opportunità di mercato.

Altre tendenze sembrano più legate alla pandemia e alle scelte in risposta alla nuova domanda di uffici flessibili, sale e postazioni che si è generata, come nessuna significativa relazione tra anni e redditività.